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Riflessioni sul senso cristiano del lavoro

Intervento di Giorgio Faro ai quadri sindacali dell’OCST, Organizzazione Sociale Cristiana del Ticino, il più grande sindacato di ispirazione cristiana in Svizzera (circa 42.000 associati), che ha celebrato lo scorso 2019 il centenario dalla sua fondazione.

  1. Mi sembra un titolo adeguato a un sindacato che fa dell’ispirazione cristiana un elemento distintivo della sua sigla. Se il titolo di questo primo incontro fosse stato: il senso del lavoro, l’argomento apparterrebbe alla competenza della filosofia, che affronta le domande di senso, servendosi di un unico strumento, la ragione. Il riferimento alla religione cristiana implica anche la possibilità di attingere al tesoro della fede. Nell’epoca antica, anche se ci sono lodevoli eccezioni, la tradizione considerava il lavoro manuale degno degli schiavi. Quasi una punizione. I liberi si occupavano di politica, scienza, filosofia. L’unico popolo, cui Dio comincia a rivelarsi è quello ebreo: gli Ebrei, leggendo la Bibbia, dove Dio crea anche la materia, ritenevano -al contrario- che il lavoro fosse un compito affidato da Dio e che l’uomo si esprimesse al meglio proprio con un doppio lavoro specializzato: uno manuale e uno intellettuale. S. Paolo, ad esempio, è apostolo e intellettuale infaticabile; ma anche fabbricatore di tende.
  2. Tuttavia, un’inesatta ricezione del cristianesimo induceva il protestante luterano Kierkegaard (che apprezzo molto) ad affermare che in Paradiso, l’unico compito dei nostri progenitori era “pregare”: cioè, parlare con Dio. Dopo il peccato originale, il compito divenne: “lavorare”, quasi una punizione. Con l’avvento di Cristo, aggiunge il filosofo danese, il dovere attuale è: “pregare e lavorare”. Direbbe S. Benedetto, ora et labora. Anche se è una tesi, per certi versi, attraente -specie nell’affermazione conclusiva-, è scorretta. Infatti, Dio pose l’uomo nell’Eden prima del peccato originale, “perché lo lavorasse e lo custodisse”. “L’uccello nasce per volare, come l’uomo per lavorare”, dice un salmo. E Marx (seguendo Hegel) ha ragione, quando afferma che l’azione che più caratterizza l’uomo è il lavoro, anche se poi ritiene che sia il lavoro stesso a generare l’uomo, senza bisogno di creazione; e che il passaggio dal lavoro alienato al lavoro liberato, cioè la sua auto-redenzione, dipenda dall’uomo stesso: dalla rivoluzione. Ha ragione invece, se si limitasse ad affermare che, nel nostro diventare questa persona che siamo, il lavoro, il mestiere, il rusco, il job, il boulot, la professione sono un fattore -non però l’unico- che contribuisce a formare l’identità di ciascuno di noi. Il lavoro caratterizza anche la nostra identità e influisce sulla nostra personalità.
  3. Conseguenze del peccato originale sono invece la fatica, che accompagna il lavoro, cui si può aggiungere la discriminazione, l’ingiustizia, la strumentalizzazione di chi viene costretto a lavorare solo in vista del risultato, umiliando la sua dignità di persona, a volte in condizioni intollerabili come quelle introdotte in passato dal taylorismo: un metodo “non per lavorare meglio”, -lo attaccava Simone Weil-, “ma solo per produrre più in fretta”.
  4. La Dottrina sociale della Chiesa, nata nel 1891 con la Rerum Novarum di Leone XIII, si è inaugurata proprio a partire dal problema umano della “questione sociale”, cioè sui conflitti generati dal lavoro, che è un tema prima ancora che sociale, antropologico. La bussola della Dottrina sociale, il suo Nord, è la dignità della persona, creata a immagine e somiglianza di Dio. Tommaso d’Aquino arriverà ad affermare che almeno in un campo, l’uomo è più vicino a Dio dell’angelo: nel lavoro. Infatti, gli angeli non lavorano, ma l’uomo che lavora rivela una forte somiglianza con Dio creatore. Mentre quando conosciamo la realtà creata, è la nostra intelligenza che deve adeguarsi alla natura delle cose, che l’uomo non ha creato; al contrario, nel lavoro sono le cose che si devono adeguare ai progetti, alle forme, che l’uomo vuole infondere in un materiale previo, che viene “tras-formato”. Dio crea dal nulla; l’uomo, a partire dal materiale che la natura offre, cui applica la sua intelligenza inventiva. Tommaso d’Aquino vedeva nel lavoro anche un’altra imitazione di Dio, perché tramite il lavoro, l’uomo è provvidenza a sé stesso e per i suoi cari. Non deve, infatti, attendersi tutto dalla Provvidenza divina, come i passeri e i gigli. In senso ampio, dal cristianesimo impariamo che il lavoro umano non è una lotta contro la natura ostile, da cui emanciparsi, ma implica un’umanizzazione della natura, che perfeziona la creazione divina, volutamente imperfetta per lasciare all’uomo il compito di lavorarla. Già Aristotele ricordava che il lavoro umano genera realtà nuove, che la natura non sa produrre.
  5. La preoccupazione per la dignità umana e i diritti correlati è il movente che autorizza la Chiesa cattolica a penetrare i problemi temporali suscitati dalla convivenza umana, a volte difficile: la causa del sorgere del Dottrina sociale. La salvezza dell’uomo non è un fatto astratto, ma esige chinarsi nella storia e nei suoi nodi, in cui l’uomo spesso s’impiglia. Infatti, basti pensare al sottotitolo della Rerum novarum: Sulla condizione degli operai; motivo per cui, Leone XIII fu immediatamente bollato dall’epiteto di “papa socialista”. L’enciclica vietava, tra l’altro, lo sciopero (oggi ammesso dalla Dottrina sociale), ma solo a partire dalla constatazione che -troppo spesso- le successive cariche della polizia o dell’esercito, facevano morti e feriti. Già la seconda enciclica di Dottrina Sociale, Quadragesimo anno, di Pio XI (1931), sempre dedicata al tema del lavoro, introduce la prima definizione del principio di sussidiarietà (adombrato nella Rerum Novarum) A sua volta il principio di sussidiarietà fonda l’autonomia dei corpi sociali intermedi, come garanzie di democraticità contro le derive totalitarie. Il cuore pulsante di una nazione è dato non dallo stato, ma dai corpi sociali intermedi (profit e no profit) che costituiscono il cuore pulsante della società civile. San Giovanni Paolo II, sostenendo l’autonomia di Solidarnosc, ha voluto fondare su quel sindacato l’istanza di libertà, dignità e diritti umani della nazione polacca. Simone Weil in persona, cita senza saperlo, la Quadragesimo anno quando riporta le seguenti parole, attribuite genericamente “a un pontefice” (Pio XI): “Dalle fabbriche, la materia esce nobilitata; gli operai ne escono avviliti” (n. 137).
  6. Può sembrare che la Chiesa non debba immischiarsi in questioni temporali, di cui non è competente (la Dottrina sociale della Chiesa non si occupa solo del tema del lavoro, ma di tanti altri: la pace, l’ecologia di cui la Laudato Sii -di papa Francesco- ne è la pietra miliare, il progresso, la giustizia, la solidarietà, la democrazia, il ruolo della finanza internazionale…). Questa critica avrebbe la sua ragion d’essere, se la Dottrina sociale pretendesse di risolvere problemi tecnici di economia, finanza, politica, sociologia del lavoro e altro. La Chiesa ha invece il dovere di intervenire nei problemi temporali che la storia suscita e che hanno un riflesso sulla salvezza, tutte le volte che vede calpestare la dignità e i diritti umani; ma può farlo, solo in via indiretta. Cioè offre ai cattolici e agli uomini di buona volontà principi tratti dalla Scrittura, da cui partire per escogitare soluzioni precise che, vertendo su questioni opinabili, devono essere proposte sulla base della ragionevolezza umana, assumendo il rischio e la responsabilità da parte di chi le propone.
  7. Non esistono “soluzioni cattoliche” a problemi temporali (si finirebbe nel clericalismo); ma soluzioni portate avanti da cattolici e uomini di buona volontà, che ne assumono la responsabilità personale. E anche tra cattolici, diverse possono essere le proposte di soluzione. La Chiesa come gerarchia dà principi guida; i singoli, tenendoli presenti, cercano di pervenire a soluzioni concrete. Il Vaticano II (nella Gaudium et Spes) conferisce per la prima volta ai laici una missione vocazionale: santificare le realtà temporali, quelle realtà, i cui problemi esigeranno sempre soluzioni opinabili. Agostino ricordava: “In necessariis unitas, in dubiis libertas; in omnibus charitas”. Traduciamo, applicandolo all’oggi: al Magistero e alla gerarchia, spetta additare ciò che è necessario alla fede e alla morale -per la salvezza- e offrire i Sacramenti, mezzi di salvezza (in necessariis unitas); ai laici (che sono anch’essi Chiesa), santificare l’opinabile (in dubiis libertas), da cui libertà e responsabilità (l’opinabile esclude ogni infallibilità). A tutti, Agostino raccomanda: non violenza, ma comprensione, carità, rispetto delle altrui posizioni (in omnibus charitas).
  8. Tuttavia, tornando al tema del senso del lavoro, occorre arrivare a un papa, anche filosofo, Giovanni Paolo II, autore non solo di tre grandi encicliche di Dottrina sociale, Laborem Exercens, Sollicitudo Rei Socialis e Centesimus Annus, ma di un’autentica teologia del lavoro cattolica, che si distingue da quella protestante elaborata a suo tempo da Lutero, trasformata poi in etica del risultato dai calvinisti, quale segno di predestinazione alla salvezza (a patto che il lavoro -per sola grazia di Dio- riesca bene, e quindi sia ben remunerato). Mentre i protestanti nel lavoro vedono solo la sacra obbedienza a un dovere imposto da Dio, ma le opere non servono alla salvezza; al contrario, nella teologia cattolica del lavoro -ferma restando la necessità della grazia, oltre la buona volontà umana- si possono santificare le realtà temporali e quindi anche il lavoro; che ha come fine immediato il risultato, ma come fine ultimo il servizio alle persone, il perfezionamento di chi lavora, la sua santificazione, l’umanizzazione dell’ambiente naturale. La santificazione del lavoro, implica anche che il lavoro sia palestra di virtù umane. Per servire bene gli altri occorre inoltre impadronirsi prima di una tecnica, con cui ottenere le migliori realizzazioni. Anche se la tecnica può non contenere nulla di etico, il dovere di impadronirsene (e aggiornarsi) è un dovere morale, in quanto strettamente connesso al servizio dell’utente e destinatario del nostro lavoro, che è una persona.
  9. Giovanni Paolo II sostiene e fonda, per questo motivo, la superiorità della persona sul prodotto, ossia del lavoro soggettivo, su quello oggettivo; cioè, salvaguarda la dimensione etica intrinseca del lavoro. E ha alcuni precursori, tra cui possiamo additare Simone Weil e J. Escrivà. La giovane intellettuale francese scrive: “non è per il suo rapporto con ciò che produce, che il lavoro manuale raggiunge il più alto valore, ma per il suo rapporto con l’uomo che lo esegue” (S. Weil, Oppressione e libertà, ed. Comunità, Milano 1956, p. 148); J. Escrivà, pioniere della santificazione del lavoro professionale (dal 1928), scriveva alludendo al lavoro: “misuro l’efficacia e il valore delle opere, dal grado di santità che acquistano gli uomini che le compiono” (cit. in J. J. Sanguineti, L’umanesimo del lavoro nel Beato Josemaría Escrivá, in «Acta Philosophica», n.1 (1992), p. 274. I pericoli attuali, che non devono però scoraggiarci, sono l’individualismo dilagante oggi, e l’auto-referenzialità, che ne proviene; ed il relativismo che toglie valore oggettivo alle scelte etiche.
  10. Per Aristotele il lavoro è solo mezzo, mai fine. Solo le azioni che hanno il fine in sé stesse, sono superiori a quelle che cessano, quando raggiungono il risultato. Possiamo inserire il pensare e il vedere come azioni perfette, ma anche il “correre” -se attività desiderata in sé- si distingue dal “correre-per-prendere-il-treno”. Può sembrare che abbia ragione Aristotele, ma ora porto due citazioni che sembrano contraddirlo: additano il lavoro come azione perfetta, nobile in sé, con un fine in sé. Voglio provocarvi con F. Nietzsche e con lo scrittore cattolico Ch. Péguy:
    Nietzsche: “cercasi lavoro per un salario: in ciò tutti gli uomini sono eguali; per tutti il lavoro è un mezzo e non un fine in sé… Esistono però uomini rari, che preferiscono morire, piuttosto che mettersi a fare un lavoro senza piacere di lavorare: sono quegli uomini dai gusti difficili, di non facile contentatura, ai quali un buon guadagno non serve a nulla se il lavoro stesso non è il guadagno dei guadagni” (in: Così parlò Zarathustra).
    E ora Peguy: “un tempo gli operai non erano servi. Lavoravano. Coltivavano un onore, assoluto come si addice ad un onore. La gamba di una sedia doveva essere ben fatta… Non occorreva fosse ben fatta per il salario, o in modo proporzionale al salario. Non doveva essere ben fatta per il padrone, né per gli intenditori, né per i clienti del padrone, ma essere ben fatta in sé e per sé, nella sua stessa natura… Un assoluto, un onore esigevano che quella gamba fosse bene fatta. E ogni parte della sedia che non si vedeva, doveva essere lavorata con la stessa perfezione delle parti che si vedevano”. (in: Il denaro).
  11. Proprio Giovanni Paolo II risolve l’apparente aporia, quando afferma che le azioni perfette, non sono quelle che sono perfette in sé, ma in quanto mirano alla perfezione di colui che le esegue. Infatti, entrambe le citazioni sopra riportate fanno capire che il lavorare bene non e tanto un agire perfetto in sé, ma è il prendere sul serio la propria persona, mettersi in gioco, donarsi agli altri nel nostro lavoro. Perciò asserisce che il lavoro è actus personae: un’attività che coinvolge, mette in gioco tutta la persona e ne conferma e valorizza la dignità.
    1. Aristotele, nell’Etica a Nicomaco, ricorda che “l’amare assomiglia a un processo di produzione”. Cioè amore e lavoro hanno in comune la necessità di manifestarsi in opere, cosa che consente all’amore e alla carità cristiana di entrare in gioco anche nel nostro stesso lavoro, in una vertenza sindacale, nella difesa dei diritti umani e della dignità, ove violati da palesi ingiustizie e logiche strumentali: avvalendoci di principi di Dottrina Sociale di partenza, ma assumendoci poi la responsabilità personale delle nostre proposte specifiche. Termino con un riferimento all’insigne psichiatra Victor Frankl, padre della logoterapia, che dalla sua prospettiva professionale esaminò i deportati ebrei del campo di concentramento, con cui condivideva quelle dolorose esperienze. Si rese conto di questo fenomeno: quanti sopravvivevano a quei trattamenti inumani erano, non i più forti fisicamente -come si potrebbe pensare-, ma coloro che avevano un più forte motivo di amare; e, quindi, di lottare per sopravvivere. Lui, personalmente, ne indicò due: il desiderio di rivedere a tutti i costi le persone amate (la famiglia precede il lavoro; Frankl perse la moglie); e l’amore al proprio lavoro, avvertito come quella specifica missione nel mondo, che ognuno ha. San Josemaria Escrivà ricorda un concetto analogo: la vocazione professionale di ognuno non è altro che una parte integrante della sua vocazione alla santità; quella santità non carismatica, che ha per oggetto le attività quotidiane, solo apparentemente senza rilievo, come la vita di lavoro nascosta di Cristo, simile alla nostra. Per Escrivà il lavoro che ha più rilievo agli occhi di Dio non è quello più elevato nella considerazione sociale, ma quello -umile o elevato che sia- svolto con più amore.