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Perché un leader dovrebbe essere umile?

Lunedì 3 aprile 2017 si è parlato del tema “Perché un leader dovrebbe essere umile?” con una riflessione d’apertura a cura del dott. Fabio Rubeo (Global Supply Chain Director – Integration,Planning & Logistic – at Philip Morris International).

Perché un leader dovrebbe essere umile? Al leader investito di autorità e potere poche volte si esige umiltà, una virtù fondamentale per il successo personale e per quello dell’impresa.

Le domande sono tante, il rischio di cadere nella semplice morale è alto: ma perché mai un leader, un uomo di successo, dovrebbe essere umile? Addirittura “servire” le proprie persone?

Questi gli spunti di riflessione emersi nel secondo workshop.

Lo stile pragmatico che contraddistingue il nostro dibattito permette a Fabio di andare dritto al punto. Esiste un modo non tradizionale di avere successo ed essere leader, ed esistono persone e organizzazioni di successo che hanno fatto della leadership di servizio [Servant Leadership] il loro punto di forza, come ad esempio Procter & Gamble che già 170 anni fa divideva parte dei profitti con i dipendenti, oppure il Cavalier Michele Ferrero, che quando assunse il comando dell’azienda nel ’57 scrisse una lettera ai suoi dipendenti in cui manifestava le sue intenzioni: “Mi impegno a dedicare tutte le mie attività e tutti i miei sforzi per questa azienda e vi assicuro che mi sentirò soddisfatto solo quando sarò riuscito, con risultati concreti, a garantire a voi e ai vostri figli un futuro sicuro e tranquillo.” Oramai sempre più ricerche mostrano come il successo delle aziende dipenda da tre fattori: formazione, qualità dei rapporti, raccontare le buone pratiche.

Il mio essere manager deve essere utile …

Procter & Gamble e Ferrero: due esempi di servant leadership che, a livello mondiale, sono riconosciute organizzazioni di successo. Un caso? Forse, oppure potrebbe darsi che l’avere a cuore i bisogni dei propri collaboratori e la loro crescita come individui e non solo come lavoratori, porti ciascuno a migliorare le proprie performance e di conseguenza l’azienda a raggiungere risultati eccellenti. Se il tema è così chiaro, per quale motivo nell’esperienza comune è più frequente incontrare capi e non leader, ed è più frequente vedere leader tradizionali piuttosto che servant leader, umili e al servizio degli altri? Le spiegazioni sono molteplici e risiedono senza dubbio nella sfera culturale di persone e aziende e nel modo in cui viene inteso il successo, sia esso personale che professionale.

Dietro un grande manager che raggiunge grandi risultati c’è sempre un grande team …

Il servant leader, così come descritto da Robert K. Greenleaf negli anni ’70, contrappone all’idea del successo legata all’accumulo di potere e al riconoscimento personale, un’innovativa e coraggiosa idea di gratificazione derivata dalla condivisione dei risultati con i propri collaboratori. Uno stile di leadership differente, in cui la classica dinamica del capo che “comanda” il collaboratore e che lo vede come “risorsa da gestire per raggiungere i propri obiettivi”, viene stravolta dalla semplicità e dall’umiltà del capo che vede le proprie risorse come “persone”, che si prende cura della loro crescita e che tiene alla loro realizzazione sia personale che professionale. La ricaduta aziendale di questo modello consiste nell’aver compreso che al centro non va il cliente, ma il proprio dipendente, infatti così otterremo un maggiore attaccamento all’azienda, al suo sviluppo, alla soddisfazione del cliente. La vera rivoluzione consiste nel fatto che è la “comunità” e non il prodotto che permette di raggiungere l’obiettivo.

Che valore ha un manager che centra gli obiettivi di fatturato ma al tempo stesso spacca il proprio team?

Se identifichiamo il successo – personale e professionale – con la quantità di cose possedute, con il numero di riconoscimenti ottenuti, con la quantità di potere accumulato, è evidente che l’idea di dover servire gli altri per realizzarci, per avere successo e, perché no, per essere felici, non ha motivo di svilupparsi in noi. Il punto è che il vero leader ha il compito di aiutare gli altri e far progredire le persone del suo team, e si dice che un manager viene considerato di successo in base a come organizza la sua successione, in base cioè a come prepara i suoi collaboratori ad essere nuovi leader. C’è quindi un modo diverso di intendere il successo, e sempre molte più organizzazioni lo stanno riconoscendo, preferendo strategie che garantiscano risultati anche a lungo termine, salvaguardando persone (famiglie) e ambiente. Non sempre però – anzi quasi mai – il cambiamento viene dall’alto, e potrebbe essere necessario dover prendere delle decisioni coraggiose per rispondere a richieste poco “etiche” da parte dei nostri capi.

Cosa fare in questi casi? Ancora una volta, come per la gestione dell’errore, si tratta di essere coerenti con se stessi, di trovare un equilibrio tra l’uomo e il professionista e di essere pronti a difendere le proprie scelte e i propri comportamenti: perché si sa che scegliere di essere umili, di essere al servizio degli altri, non è la scelta più facile per un manager.

Se non sei umile ti chiudi e non ascolti …

Serve una “virata culturale”, una rivoluzione di coloro che guidano gli altri ascoltando invece che urlando; serve cambiare le regole del gioco e l’unico modo per farlo è iniziare da noi stessi.