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InCoronavirus. La lezione della pandemia

Sulla vicenda che tutti ci coinvolge in queste settimane di avvio del 2020, e che inevitabilmente attiva numerose riflessioni di ogni genere, pubblichiamo alcune considerazioni introduttive di Claudio Sartea, Docente di Filosofia del Diritto, Biogiuridica, Bioetica e Diritti Umani presso l’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, tratte dal sito web Pensare il diritto.
Esse, oltre a condividere alcuni spunti di meditazione, intendono aprire un più ampio dibattito scientifico e culturale su uno degli avvenimenti più significativi di questo inizio di millennio.

Durante lo scorso mese di gennaio abbiamo cominciato ad apprendere che in Cina non se la passavano troppo bene a causa della diffusione di uno sconosciuto virus della famiglia dei coronavirus, che per la prima volta si affacciava sulla scena dell’opinione pubblica con pessime credenziali, nonostante l’elegante denominazione scientifica, quasi regale e certamente molto efficace sul piano mediatico. Escluso che si trattasse di un virus di sintesi artificiale – e dunque scoraggiati, almeno in parte, gli instancabili ed occhiuti complottisti della guerra batteriologica o gli strateghi geopolitici delle OPA commerciali su scala globale – si è ripiegato su pangolini e pipistrelli, svolazzanti nei mercati di Wuhan, provincia dell’Hubei.

A febbraio abbiamo avuto in uno sconosciuto paese presso Lodi, dal nome ombroso e minaccioso diventato oggi arcinoto, il primo caso italiano: quello di un giovane in buona salute ricoverato poi per settimane in terapia intensiva, a combattere tra la vita e la morte. Da lì una catena di contagi in crescita esponenziale, fino ai primi decreti della Presidenza del Consiglio dei Ministri ed alle ricadute nella vita quotidiana che tutti conosciamo: le mascherine, le code ai supermercati, le distanze di sicurezza, la chiusura forzata di luoghi d’incontro, sport e divertimento, l’alterazione radicale dei ritmi di vita, l’esclusiva e monomaniacale concentrazione mediatica, l’ossessiva pulizia delle mani ed i martellanti vademecum sulle regole per uscire, sulle regole per rientrare a casa, sulle regole per pulire gli abiti potenzialmente infetti, sulle regole per indossare i presidi protettivi, sulle (sempre più ridotte) eccezioni al generale divieto di uscire di casa, e così via.

L’apnea non può durare sempre, occorre tirare la testa fuori dall’acqua almeno ogni tanto, prendere il respiro ed ossigenare i nostri minacciati polmoni, sia quelli del corpo che quelli dell’anima (non dimentichiamoli questi ultimi, perché sono quelli più vulnerabili e meno facili da curare, oltre che probabilmente quelli più bisognosi di attenzione, almeno negli animali ragionevoli). Vorrei provare a dare un contributo per questo secondo tipo di ossigenazione, da studioso di filosofia giuridica e bioetica.

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Che cosa c’insegna questa crisi mondiale? Credo che la domanda ne abbia una logicamente precedente: una crisi del genere insegna qualcosa? È in grado di farlo? O addirittura: deve farlo? È mia persuasione che la risposta sia positiva. Gli esseri umani, proprio perché almeno ad intermittenza sono in grado di manifestare, più che razionalità, direi soprattutto ragionevolezza, hanno questo problema, questo potere, questa attitudine: cercare, e talvolta trovare, un senso ai fatti. Per loro, gli eventi non sono puri accadimenti, ma avvenimenti dotati o dotabili di un significato. Un cataclisma sociale come quello che stiamo vivendo, che promette di sconvolgere le nostre esistenze e le nostre relazioni ancor più di quanto non abbia fatto finora, è un ottimo candidato a questa domanda sul senso degli accadimenti, e provoca le nostre intelligenze (sia quelle della mente che quelle del cuore, facendo appello ad entrambi gli esprits di cui parlava Pascal), esigendo una significazione, una risposta di senso. Con buona pace di Nietzsche e dell’atteggiamento nichilista, i fatti non sono stupidi: se lo sono, è loro malgrado ed in ogni caso è prima che incontrino un essere pensante, foss’anche solo una canna. Quando lo incontrano, la loro elaborazione semantica è irrimediabilmente avviata, e ne comincia la trasfigurazione. Così, essi diventano dei vettori di senso, dei messaggeri misteriosi ma necessari come l’ambasciatore inviato dal re nel racconto di Kafka: nonostante il pessimismo del grande narratore praghese sembri impedire, in esito all’apologo, la trasmissione del messaggio al suo destinatario, nessuno può confiscarci la speranza di venirne un giorno a conoscenza, si tratti di comprensione umana o addirittura, come tutto lascia immaginare nell’opera kafkiana, della teofania di una rivelazione.

Ed allora la domanda diventa questa: che cosa questi fatti straordinari vogliono comunicarci? Che cosa ci comunica questo concreto e devastante, inedito e spiazzante avvenimento? Provo di seguito a sbozzarne una sorta di sommario, provvisorio ed incompleto.

1. Solidarietà e riscoperta delle relazioni domestiche e del senso della casa e della famiglia come luogo di appartenenza: l’opposto della globalizzazione, dell’anonimizzazione delle relazioni virtualizzate e sostitutive di quelle faccia a faccia, che è la fonte della minaccia e l’origine fattuale della crisi. Tra i tanti motti di spirito elaborati a livello popolare per sdrammatizzare ed alleggerire la tensione costante ed opprimente di queste settimane, ve n’è uno la cui arguzia sottile ed umanissima mi ha fatto sorridere: “Sono rimasto tutto il giorno a casa con la mia famiglia… sembrano brave persone!”. È proprio vero che residua sempre un margine d’inconoscibilità nelle persone, anche quelle più intime a ciascuno di noi: e l’impresa di esplorarle un po’ di più, di comprenderle meglio, è uno dei doni di questi giorni sventurati. Così, queste ore strane e forzatamente concentrate sulla casa, ristrette tra le mura domestiche, offrono un’opportunità, che non avevamo messo nel conto, per tornare alle festività natalizie, esasperanti e faticose se non sappiamo fare famiglia, oppure, se sappiamo invece farla, intimamente e veritativamente piene di frutti, e che possiamo riavere gratis, senza l’ansia dei regali da comprare e dei cenoni da preparare, tutti concentrati dunque sulla scoperta di questi sconosciuti con cui da tanto tempo conviviamo, alla riconquista amorevole delle persone che abbiamo scelto o abbiamo ricevuto come compagni di viaggio, anche di questo viaggio che non utilizza aerei né treni e che prevede solamente spostamenti psichici ed emotivi, nella costanza degli scenari esterni. Stiamo insomma riscoprendo che l’uomo è (anche) un animale domestico, che anche nel nomade più incallito vi è profonda la nostalgia di una Itaca degli affetti e dei legami più profondi, che decide della sua stessa identità e stabilisce l’agenda dei doveri ed ogni diario di viaggio. Converrà allora guardarsi dal considerare la casa una gabbia, dal proiettare ancora una volta il senso della nostra esistenza, l’inveramento della nostra funzione sociale, fuori di qui, fuori dalla mia dimora, dalla mia famiglia, dalle mie relazioni più profonde e smascheranti (cioè identificative), che sono quelle familiari: chissà che non sia questa l’occasione per imparare a non sfuggire alla chiamata della verità totale, continuando a rimpiazzarla con verità parziali e temporanee, che troppo spesso finiscono per diventare il palco di recite alternative in larga parte immaginarie. Allo stesso tempo, appare incoerente deprecare il fatto che i giovani scalpitino per uscire di casa e tornare ai venerdì ed ai sabati sera, all’happy hour ed ai pub: siamo soliti rimproverarli perché hanno virtualizzato le loro amicizie, magari censuriamo i social o almeno ne stigmatizziamo i limiti relazionali ed invece dovremmo apprezzarli quando, messi alle strette, devono limitarsi a questi rapporti parziali e riduttivi, li intensificano, ma sotto sotto desiderano ardentemente riavviare quanto prima – per carità, nel rispetto delle regole saggiamente stabilite dai governanti – le loro relazioni piene. Tutti, in ogni caso, abbiamo la preziosa opportunità di reimparare, ora che non ne godiamo, la bellezza del tocco, dello sfioramento, della carezza, della pressione calda e tenera dell’abbraccio, dello sguardo dritto negli occhi senza l’inquieto ed assente andirivieni tra schermo e webcam – meraviglie di umanità, doni di pienezza relazionale che tanto più apprezziamo quanto più ci mancano in queste settimane di astinenza forzata e di ristrettezze e riduzioni antropologiche. La retorica del “lontani ma vicini” si spreca, eppure nessuno può negare che la cosiddetta “vicinanza” di cui si parla è quella mediata da una società di telecomunicazione, dall’ondivago flusso di byte da un apparato elettronico all’altro: e che cresce, cresce ogni giorno di più la voglia umanissima del contatto autentico, dello sguardo diretto, della soddisfazione di quei sensi che la realtà virtuale minimizza e la pseudocultura tecnoscientifica addirittura disprezza, come il tatto e l’olfatto. Un bel libro di qualche anno fa lo sintetizzava nel richiamo di un unico odore stupendo, “il profumo dei limoni”.

2. Ridimensionamento della scienza e della biomedicina. A partire dall’Illuminismo la cultura occidentale ha associato la storia al progresso, ed il progresso all’incremento delle conoscenze e poi (già Bacone lo aveva previsto) del potere manipolatorio, della capacità di artificio (scientia propter potentiam). Di colpo, lassù sul trono dell’onniscienza e dell’onnipotenza da cui, novella torre di Babele rinominata Science o Nature, credevamo di dominare il creato, ci raggiunge adesso la novità imprevista e sconcertante: non è vero che sappiamo tutto, anzi, non sappiamo quasi nulla. Non è vero che prima o poi sapremo tutto, certamente non lo sapremo noi, e comunque la natura è sempre capace di sorprese, il contenitore si mantiene sempre più grande del contenuto, e nessun figlio può annientare fino in fondo il padre. E se baconianamente la scienza era per il potere, dalla constatazione umiliante che non sappiamo poi granché deriva anche l’altra, indisponente: non abbiamo il controllo su tutto, anzi, proprio oggi che controlliamo “tanto”, non abbiamo il controllo quasi su nulla, se lo commisuriamo in proporzione a quel che non controlliamo proprio. Ci siamo sì gingillati a lungo in questa illusione del tutto controfattuale, le “magnifiche sorti e progressive” della modernità sembravano, almeno in ambito medico e biologico-genetico, confermare anche le più ottimistiche previsioni: tanto più doloroso e traumatico è stato il ritorno alla verità della nostra condizione, segnata indelebilmente dalla vulnerabilità e dalla soglia della fine, dalla mortalità che tutti ci condanna e tutti ci accomuna, che tutti ci attende (magari speranzosi di un’aldilà migliore) e tutti ci eguaglia e connette profondamente. Forse non è necessario evocare in proposito l’immagine della caduta originale, anche se le affinità sono piuttosto vistose (“Sarete come Dio, conoscerete”): del resto, Goethe lo aveva preconizzato già dagli inizi della modernità adulta, con l’ascesa e la rovinosa caduta del suo personaggio più potente ed indimenticabile, e con la sua finale, gratuita ed immeritata salvezza (chissà se Endokimov pensava anche a Margherita, oltre che alla Vergine Maria e magari alla Sonia di Dostoevskij, quando scrisse sul ruolo della donna nella salvezza del mondo). Abbiamo respirato l’atmosfera gratuita, leggera ma ben poco ossigenata, dell’illusione, dell’onniscienza almeno potenziale e della conseguente onnipotenza: ed oggi scopriamo che non era davvero gratuita, né innocua, né innocente. Non siamo onnipotenti, né onniscienti, e la nostra storia non si muove sulla linea retta di un’inesorabile progressione verso il potere, verso il controllo, verso la sicurezza, o addirittura verso il folle progetto postumanista di un superamento della condizione umana attraverso l’ibridazione di naturale ed artificiale spinta fino alla trasformazione della nostra natura: certamente crescono il sapere e le possibilità, almeno in alcuni, ma nelle scienze umane non vi è il progresso che si registra nelle scienze naturali. Lo ha chiarito definitivamente Ratzinger in quel capolavoro di riflessività teologica ma anche filosofica che è l’enciclica Spe salvi, dove ci aveva ben messo in guardia dalle false hopes, dalle false speranze che guarda caso danno anche il titolo all’importante, ed attualissimo, studio di Daniel Callahan tradotto in italiano La medicina impossibile.

3. Prezzo della globalizzazione e riconfigurazione dell’idea illuministica di progresso (o meglio, sua definitiva archiviazione). Con l’epidemia di Covid-19 abbiamo anche appreso, se ce ne fosse stato bisogno (molti si erano già disincantati, ma qualche strenuo globalista e progressista sicuramente resisteva ancora sulle barricate rimaste in piedi tra le macerie della crisi economica del 2007), che la globalizzazione non è solo un bene, che in generale ogni processo della storia degli uomini ha lati positivi come lati negativi, e non è mai semplice tracciarne una valutazione complessiva (che del resto non è nemmeno compito nostro, se non altro per difetto di visione, per unilateralità spaziotemporale). Ai tempi di Marco Polo non bastava la durata di una vita (assai più breve, invero, di quella media attuale) per importare un virus dalla Cina: oggi in dieci ore è tutto pronto per la trasmissione dei contagi più feroci. Godiamo intensamente dei benefici di queste novità, celebriamo l’aviazione e le tecniche di trasporto rapido di persone e beni: ma dobbiamo anche calcolarne gli effetti dannosi, la straordinaria facilitazione della circolazione di malattie, droghe, prodotti contraffatti o pericolosi, la rapidissima diffusione sui mercati di tutto il mondo di prodotti avariati che in poche ore sfuggono a qualsiasi controllo proprio a causa dell’efficienza che altrove magnifichiamo ed apprezziamo, lodando gli aerei, le autostrade, il commercio elettronico ed il trasporto reale coi suoi nuovi efficacissimi sistemi di mobilitazione ed immagazzinamento delle merci. Visto dall’alto, è un colpo al cuore del mito del progresso: non saranno rimasti in molti quelli che ancora ci credevano, ma adesso diventerebbe ridicolo collocare la storia umana in quello schema semplificativo. Sia chiaro, non c’è in questa constatazione nemmeno l’ombra del luddismo o del misoneismo, ed ancor meno la più remota e pallida traccia di nichilismo: celebrare l’uomo, come fa costantemente l’autentico umanesimo, non significa necessariamente celebrarne la storia (che anzi, è piena di vergogne, oltre che di grandezze), ed ancor meno immaginarla come un irreversibile progresso verso il meglio. A volte è l’uomo stesso che con le storie che egli scrive s’incarica di eliminare dubbi ed equivoci, perpetrando atrocità che soltanto lui è in grado di immaginare ed allestire, magari sotto l’insegna “Il lavoro rende liberi” (qualcuno sostiene che sia invece la verità, a renderci liberi). Altre volte la natura, che ha più forza e certamente molta più immaginazione, precede la nostra iniziativa e ci consegna bell’e confezionate opportunità spettacolari, come questa pandemia, per mettere in discussione le nostre sicurezze e le nostre speranze, per riconfigurare con maggior verosimiglianza le nostre relazioni con il mondo, e cominciare narrazioni nuove, magari più plausibili.

4. Relativizzazione degli assoluti socioculturali. La dura vicenda che ha messo in ginocchio quasi tutto il mondo cosiddetto benestante insegna anche una profonda verità in relazione alle nostre abitudini di vita. Con ben poche differenze rispetto ai nostri antenati, e risalendo per essi fino alle prime origini dell’homo sapiens sapiens, ci accorgiamo grazie ad essa che non esistono, o sono davvero poche e certamente meno di quel che pensassimo, le cose e le abitudini indispensabili della nostra vita e per la nostra vita. Quattro decreti della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in meno di due settimane, hanno stravolto le nostre abitudini, e promettono di continuare a farlo ancora per un po’, ed in men che non si dica ci siamo adattati, adeguati (con o senza bisogno della minaccia di sanzioni, e del loro successivo inasprimento), abbiamo avviato efficaci modalità di home working, abbiamo soppiantato le agende consuete con nuove agende piene di appuntamenti ed impegni, e stiamo imparando a convivere con la sedentarietà forzata inventandoci esercizi fisici e modalità relazionali il cui unico limite è il limite dell’umana fantasia. Abbiamo rimpiazzato anche le preoccupazioni (non si può vivere senza cure), al posto del traffico urbano ora temiamo le code nei supermercati, e lo stress non dipende più dall’andirivieni quotidiano o dall’ansia da prestazione lavorativa, ma magari dall’apprensione per la salute dei propri cari anziani e isolati, dal continuo flusso di allarmanti informazioni sulla pandemia (accompagnato, perché negarlo?, dal sottile ma inconfessabile piacere di sentirsi “al centro”, si fa per dire, di un avvenimento epocale come l’attentato alle Twin Towers, di una storia che sarà raccontata), oppure dall’attesa frustrante di una spedizione che non arriva, o di un incremento dei giga disponibili per il traffico internet a casa. Anche gli standard di benessere si sono ridimensionati: ci accontentiamo più serenamente del latte a lunga conservazione senza pretendere ogni giorno a colazione quello fresco, stiamo persino imparando a farci il pane in casa (se solo la farina non si esaurisse così velocemente nei supermercati!), ed impariamo a dedicare tempi prima impensabili alla preparazione dei pasti ed alle telefonate di cortesia o di amicizia. Il planning settimanale ne esce completamente rivoluzionato, e siamo costretti ad interrogarci non solo sulla consistenza delle priorità attuali, ma anche sulla sostanza di quelle antecedenti. A noi decidere se, finito tutto questo (ma sappiamo che in verità nulla finisce, che tutto si trasforma e che il successivo conserva le reliquie del precedente, e che l’icona della genetica è una catena), ripristineremo la tavola di prima, manterremo nella misura del possibile quella attuale, oppure almeno – “non picciol frutto” di tutta questa vicenda globale – rimediteremo sui fondamenti del nostro vivere e su ciò che davvero ha peso, gli dà peso e ci dà peso (l’agostiniano amor pondus).

5. Ritorno della dipendenza: dalle istituzioni, dai medici curanti e dagli infermieri e dai loro collaboratori più o meno volontari, dalle terapie intensive e dalle loro macchine, dalle risorse scarse, dalla pazienza di coloro che ci circondano (e dalla loro lealtà e correttezza), da Dio che ci ha creati e s’impegna a custodirci.
È una categoria, quella della dipendenza, piuttosto indigesta agli stomaci moderni, che almeno nella cultura occidentale dominante si sono ingordamente abboffati di libertà, autonomia, autodeterminazione, ed hanno creduto di poter legittimamente relegare la dipendenza nel sottoscala dei fallimenti esistenziali, nell’antro oscuro delle sventure genetiche o biologiche, nella iattura paludosa dei rovesci di fortuna.
Il tutto, facendo leva su non si sa quale premessa sociologica, secondo cui ad un certo punto la storia umana si sarebbe finalmente e beatamente messa sulla strada di un’uguaglianza universale ed autarchica, in cui l’unica legge è quella del mercato (ma poi da quando e da chi il mercato è stato autorizzato ad essere normativo? Non avevamo negato normatività persino alla natura, pur di radicalizzare prometeicamente e faustianamente la nostra indipendenza?): premessa a sua volta modellata su un’antropologia ingenuamente individualistica, riduttivamente imperniata su un paradigma di essere umano che non solo non è mai esistito prima, ma non può esistere nemmeno dopo, e purtroppo o per fortuna non esisterà mai. Non siamo i padri di noi stessi, e questo è quanto basta per rendere impossibile (anche se ahimè non inimmaginabile) l’indipendenza vagheggiata dai filosofi e dagli intellettuali che ci hanno trastullato con il loro liberalismo semplificato ed astratto.
Dipendiamo, invece: ognuno di noi dipende vigorosamente da molti altri, da tutti (in negativo: chiunque può nuocerci), ed in positivo da tanti, tantissimi altri-come- noi, quelli che ci hanno generato, quelli che ci hanno nutrito ed allevato, quelli che ci hanno istruito e continuano a farlo da vicino o da lontano, quelli che, con o senza il nostro consenso (altro mito postmoderno da disinnescare: ben poco di ciò che davvero conta nel mio vissuto reale ha a che vedere con le mie scelte arbitrarie), hanno influito su di noi condizionandoci sia per adesione che per contrasto, quelli che se non oggi certamente domani si prenderanno cura di noi, come la dottoressa che culla lo stivale nell’icona dell’epidemia in Italia, o la commovente infermiera abbattuta dalla stanchezza sulla tastiera del computer in cui sta registrando le ultime cartelle cliniche. Quei soggetti che avevamo cominciato a considerare pericolosi, scatenando contro di loro (e contro il sistema accusato di “paternalismo” che essi rappresenterebbero) le armi della spensierata giurisdizione post caso Massimo, ora ci appaiono in una luce diversa, comprendiamo che senza di loro, ci piaccia o no, da queste crisi non si esce, e ci profondiamo in applausi e gesti di ammirazione, e generosamente doniamo contributi a sostegno del loro lavoro e delle loro ricerche, insomma sospendiamo almeno temporaneamente le critiche, le paure ed i sospetti tornando a metterci nelle loro mani senza più tante pretese di uguaglianza di posizioni e di tutela dei consensi informati. È cambiato qualcosa? Hanno meritato una fiducia nuova? Non si direbbe. Forse è solo che abbiamo smascherato un altro mito, quello della simmetria nelle relazioni professionali: mito, perché la professionalità (che naturalmente deve essere ben fondata e ben manifestata) implica competenze superiori e superiori abilità, e l’esistenza degli esperti, dei professionisti, si spiega proprio in relazione all’indigenza di tutti gli altri. Un’asimmetria che non disegna una disuguaglianza (e proprio a garantire l’equità concorrono il diritto e la deontologia professionale), ma che ribadisce una reale distanza di conoscenze e capacità operative, e conferma la profonda verità implicita nella parola greca “terapia”, che vuol dire servizio, così come la necessità corrispondente di una fiducia schietta e originaria.

6. Scoperta della zona nascosta della nostra organizzazione sociale, o almeno riscoperta valorizzante. In queste surreali, insolite settimane, nelle nostre metropoli si muovono (o dovrebbero, o possono, muoversi) solo quelli che fanno funzionare tutto, e scopriamo che non sono i CEO delle grandi aziende o i parlamentari o i giudici o i professori universitari: no, sono gli operatori ecologici nei loro rumorosi veicoli notturni, sono i trasportatori (quelli dei TIR enormi che attraversano i Continenti e quelli dei camioncini del trasporto latte, quelli che recapitano prodotti acquistati su internet e gli addetti del trasporto pubblico), sono i benzinai, sono le cassiere dei supermercati dietro la loro umida mascherina e gli addetti del banco della carne o del pesce, sono i farmacisti ed i parafarmacisti, sono gli addetti delle pulizie della mia università (e di migliaia di altri edifici pubblici), i soli che s’incontrano ormai nei corridoi, ben bardati di maschere e guanti, sono i responsabili informatici di un’infinità di uffici, a cui non bastano le ventiquattro ore del giorno per soddisfare le innumerevoli richieste di nuove attivazioni o di aiuto nella gestione di software sempre più necessari per lo smart working, sono i donatori di sangue ed i volontari della protezione civile o delle misericordie, che continuano per fortuna a circolare mentre rimpiangiamo l’estrema utilità dei badanti per anziani e delle baby-sitter costrette a rimanere a casa propria, privandoci di un aiuto che scopriamo così prezioso.
I medici, e gli infermieri persino di più, sono richiesti, invocati, assunti dappertutto, si richiamano indietro i pensionati, si allestiscono tendoni fuori dagli ospedali per riempirli poi di personale raccogliticcio ma tanto più necessario ed indispensabile.
Non sono indispensabili gli attori, i cantanti ed i calciatori, che, quando non contraggono il virus (ormai l’elenco è lunghissimo, ma all’inizio c’erano solo, nell’ordine, Tom Hanks e Nicola Rugani), possono solo limitarsi a fare inviti più o meno persuasivi alla popolazione (Jovanotti) o concerti in streaming da casa (Gabbani). Proprio come nell’intensa serie televisiva Downtown Abbey, in cui le vicissitudini della nobiltà che vive ai piani alti poggiano sulle fatiche umili e generose, pienamente consapevoli e dignitose, della servitù del piano di sotto, indispensabili sono quelli che stanno svuotando la campana del vetro sotto casa mia in questo momento, i netturbini che nelle strade del centro di Milano (di solito affollate da agenti di borsa e broker rampanti, oggi tutti a casa a misurarsi la febbre, mentre le modelle dell’alta moda meneghina vanno tutte a ripararsi nelle loro lussuose ville monegasche) stanno spazzando via con getti d’acqua e disinfettante quel che resta ancora del terribile virus, così maledettamente affezionato alle contrade della nostra Capitale del Nord. Li dimenticheremo presto, questi oscuri e indispensabili agenti della salute, del benessere e dell’alimentazione, questi segreti e silenti benefattori che hanno dedicato al nostro corpo le loro mani, la loro competenza, le loro energie diurne e notturne, a volte la loro stessa vita, posponendo alla loro professionalità il rischio personale di contrarre il morbo: ci scorderemo di loro, che pure in buona parte continueranno ad esistere, quando tutto tornerà alla normalità, e torneremo con l’abituale miopia a concentrarci sul nostro successo, sul denaro, sulla carriera, sul potere formale. Eppure il nostro corpo continuerà ad essere buona parte di noi, la sua vulnerabilità continuerà ad essere la nostra personale debolezza, non solo la nostra forza; e la sua finitezza accompagnerà anche allora, e proprio fino alla fine, le nostre ignare giornate.

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Almeno il virus lasciasse un piccolo germe di saggezza a questa contraddittoria umanità, così arrogante ma così poco consapevole. Almeno una corona ci restasse sulla testa, quella della nostra provvidenziale umiliazione.