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Qualità della vita e qualità del lavoro

Martedì 16 maggio 2017 si è svolto un incontro ulla qualità della vita dei dipendenti di aziende. La riflessione è stata affidata al dott. Enrico Martines, direttore Formazione, Sviluppo e Innovazione Sociale at Hewlett Packard Enterprise.

Oggi per le imprese è fondamentale parlare della qualità della vita dei propri dipendenti. Cosa si intende per qualità della vita? Questo concetto non contrasta con la necessità di fare profitto?

Sociologo, tre figli, appassionato di tecnologia: così si presenta Enrico Martines quando apre il dibattito sul tema della qualità della vita e dell’inevitabile intreccio con il lavoro.

Come diceva Darwin, “Il lavoro nobilita l’uomo”. Sì, è così. Lo rende migliore, lo eleva a status di Persona abile e capace. Ma non facciamo fatica a portare il nostro pensiero a quei casi in cui, quel “portatore di nobiltà” che è il lavoro entra prepotentemente nella nostra vita, occupando spesso anche spazi non suoi. Ed eccoci sempre disponibili, sempre pronti a rispondere in modo compulsivo ed efficace (apparentemente) ad ogni richiesta, sempre attenti a verificare, anche un pò sperandolo, che sul nostro cellulare ci sia qualche notifica che dobbiamo assolutamente guardare.

Come influisce questo sulla qualità della vita di ciascuno? Siamo sicuri che un continuo “attenzionismo” sia sinonimo di maggiore produttività? Una riflessione sulla qualità della vita e su quanto sia determinante per le imprese favorire un bilanciamento positivo tra vita e lavoro.

Questi gli spunti di riflessione emersi nel terzo workshop.

Se pensiamo a cosa accadeva nell’era industriale, quando l’uomo era funzionale alla produzione al pari di un ingranaggio e lavorava 16 ore al giorno, ci accorgiamo di come il lavoro fosse l’unica attività della giornata, tolta la quale non rimaneva nulla. Fortunatamente, il progresso ha messo fine a quel modello, fino a quando l’orario di lavoro standard di 48 ore a settimana per 6 giorni lavorativi, permetteva al lavoratore di avere del tempo libero da dedicare alla famiglia, alle commissioni, agli hobby. Il lavoro e la vita erano fisicamente separati, tanto che, terminato il proprio orario, si “staccava” dal lavoro.

Oggi l’innovazione tecnologica, che tanto ha portato alla produttività in termini di automazione, velocità e qualità del prodotto e del servizio, ha senza dubbio cambiato nuovamente le regole del gioco. Anche quelle della nostra vita personale. Mail, Whatsapp, Skype, LinkedIn, Facebook, Twitter: mille strumenti per essere sempre raggiunti, mille modi di comunicare, mille modi per far sapere al nostro capo che siamo disponibili, che stiamo sul pezzo. Potremmo essere sempre connessi, ma la domanda è “possiamo decidere anche di non essere connessi? Possiamo essere non disponibili?”. Quello che succede oggi è che il lavoro (certi tipi di lavoro, di sicuro quelli intellettuali) e la vita sono costantemente intrecciati, sono l’uno il prolungamento dell’altra, e se questo sia un bene o un male per la produttività è argomento di confronto e discussione.

Proviamo a mettere ogni tanto il telefono in airplane mode: scopriremo che ci sono tante cose che possono aspettare, senza che ciò crei problemi a nessuno …

Di sicuro la connessione e la disponibilità costante non aiutano in termini di qualità della vita, e pare siano anche antieconomici: si stima che circa il 28% del tempo vada perso a causa delle notifiche, e che addirittura queste stimolino la dopamina come segno di gratificazione, o, al contrario, di cortisolo come segno di frustrazione, ad esempio quando vediamo che un nostro messaggio inviato è stato letto e non abbiamo ricevuto alcuna risposta. La iperconnessione aumenta il bisogno di essere riconosciuti, di essere confermati dagli altri, e questo porta via tante energie.

Se trasliamo questi concetti al rapporto esistente tra manager e collaboratori, è facile capire come tutto ciò non può non avere un impatto in termini di qualità del lavoro e qualità della vita. Spesso il manager, replicando lo stile di leadership che ha imparato, chiede ai suoi collaboratori di essere sempre disponibili ad una call o si aspetta una risposta immediata ad una mail e la battuta “oggi mezza giornata?” è segno evidente di una cultura basata sul “presenzialismo” e sul dover dimostrare di fare sempre e comunque un sacrificio in nome di questo o quel progetto. Con quali risultati?

Se oggi il lavoro è frutto di produzione intellettuale e se il lavoro intellettuale è legato al benessere, allora la ricerca della qualità della vita è una questione di produttività …

Vita e lavoro possono essere felicemente interconnessi, ma non sacrificando l’una a discapito dell’altra. Basti pensare a quegli esempi virtuosi di smart working: lavorare dove e quando si vuole, superando il limite del controllo con la cultura del risultato. Una condizione di libertà come quella offerta dallo smart working e l’assenza di vincoli rigidi e tradizionali favoriscono la creatività e la capacità di trovare soluzioni alternative. Inoltre, la possibilità di organizzare i propri orari integrandoli con le esigenze familiari, e di risparmiare il tempo per gli spostamenti casa-lavoro, abbassa lo stress e permette di essere più concentrati. Questo, se da un lato può avere evidenti effetti positivi sulla qualità del lavoro, specie per quelle professioni in cui la creatività e il problem solving sono fattori essenziali, dall’altro può influire positivamente anche sullo star bene dell’individuo e più in generale sulla qualità della vita dei dipendenti.

Se non sei buono per te stesso non sei buono per la tua famiglia. Se non sei buono per la tua famiglia, non sei buono per l’azienda …

La qualità del lavoro e la qualità della vita sono dunque legate in modo circolare: lavorare bene e serenamente influisce sulla qualità del lavoro e sulla qualità della vita personale, una persona che sta bene lavora meglio, è più ingaggiata ed è più disponibile a fare sacrifici. È necessario però tutelarsi da un rischio, e cioè che dietro l’innalzamento della qualità della vita (e di quella del lavoro) di qualcuno, ci sia uno sfruttamento del lavoro di qualcun altro a bilanciare delle leggi dell’economia non sempre giuste. Questo rimanda al più ampio tema della distribuzione della ricchezza, che trascende la singola realtà aziendale e si allarga agli aspetti socio politici ed economici del Paese e del mondo intero.

Se facciamo l’esercizio di rimanere concentrati su quello su cui possiamo agire direttamente, il qui ed ora, dobbiamo porci una domanda chiara: “Come posso portare, nella mia azienda, questo seme della qualità, tanto del lavoro quanto della vita?”. Lo smart working è l’unica soluzione? La risposta è da ritrovare, ancora una volta, nella cultura e cioè nei comportamenti: certamente, in un’azienda in cui il top management valorizzi l’importanza della qualità della vita anche attraverso la flessibilità del lavoro è tutto più facile, ma il cambiamento può avvenire anche dal basso attraverso il role modeling, cioè la capacità di indirizzare colleghi e collaboratori con l’esempio. Il problema dei manager di oggi è che hanno imparato un paradigma di gestione delle risorse che oggi risulta inadeguato proprio perché più basato sul controllo della presenza che su quello dell’efficienza del lavoro svolto.

Cosa succederebbe se sostituissimo questo paradigma con quello della fiducia, della attenta pianificazione del lavoro e della responsabilizzazione di ciascuno? In quest’ottica la tecnologia può essere davvero una grande alleata nel far dialogare vita personale e carriera, bisogni familiari ed esigenze di business.

Autori

Paolo Petrucciani (*), 65 anni, matematico con specializzazione in cibernetica socio-comportamentale, è un consulente di direzione certificato, CMC – certified management consultant dal 1994 presso APCO-ICMCI, membro del Consiglio Territoriale della Delegazione APCO Lazio, è stato socio ordinario AIF, svolge attività di consulenza di direzione e organizzazione da circa trent’anni per grandi aziende e strutture organizzative di vari settori industriali, prevalentemente multinazionali, nazionali e aziende pubbliche. È Amministratore Unico di Epistema Srl (epistema.it/), co-autore di 3 libri, di cui un e-book, e di oltre 50 articoli e saggi tecnici pubblicati su riviste specializzate. Fa parte della redazione della rivista Officine Einstein (officineeinstein.eu), come responsabile della sezione «Cultura e Comportamenti aziendali» e pubblica anche articoli, in modo non continuativo, su il Caos Management di Barbara Herreros e Giuseppe Monti (caosmanagement.it/) e altri riviste e magazine on-line.

Raffaele Santoro (**), laureato in psicologia, master in bilancio delle competenze e orientamento degli adulti, six sigma yellow belt, è Key Accunt Manager di InforGroup Academy (inforgroup.eu/InforgroupforBusiness/EducationinAcademy.aspx), Gruppo De Pasquale (gruppodepasquale.com). Esperto di formazione e dei processi di apprendimento, è stato HR consultant presso il Consorzio ELIS, dove ha lavorato con grandi imprese ideando e sviluppando progetti formativi complessi in area Operation & Safety. E’ stato il responsabile, in qualità di Service Manager, della fornitura dei servizi integrati per la salute e sicurezza sul lavoro per il MiBACT. Knowledge worker e co-designer, collabora con team internazionali in progetti di facilitazione dei gruppi di lavoro. È formatore sui temi della crescita personale, della comunicazione interpersonale e dell’intelligenza emotiva.